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E-book Motor Towns : Innovazione, rigenerazione e turismo | Innovation, redevelopment and tourism
All’inizio degli anni ’90 del ’900, quando la città di Torino pareva interrogarsi, tra circospezione e scoramento, sul proprio futuro postin-dustriale, Carlo Cresto-Dina e Franco Fornaris decisero di dar vita a un documentario costruito attraverso una serie molto ampia di interviste a persone informate dei fatti, “per capire se una città sta veramente mo-rendo”. Ne nacque un volume, dal contenuto assai ricco e soprattutto dal titolo formidabile, nella propria asciutta verità. Quasi ad apertura, Luigi Mazza ne chiariva il significato: Chi l’ha detto che una città non può morire? Non è assolutamente scritto da nessuna parte che una città, solo per il fatto che è esistita e magari è stata centro di attività importanti, non possa spegnersi1.In quelle pagine, si parlava appunto di Torino, in procinto di smarrirsi quale città dell’auto: quasi uno slogan pubblicitario, questo, che tuttavia nascondeva e in parte ancora nasconde una realtà durata oltre un secolo. Pochi anni prima, era stato Marco Revelli a descriverne in poche righe uno scenario quantitativo abbagliante anche solo osservando un’unica fabbrica: Mirafiori, quasi tre milioni di metri quadri, per metà coperti, 37 porte d’accesso, distribuite lungo un perimetro di oltre 10 chilometri, una popolazione dai 30 ai 60 mila uomini, a seconda dei tempi, con una rete stradale interna di 22 chilometri e una ferroviaria di 40. Otto locomotori, 30 vagoni in uscita, altrettanti in entrata. Quasi 40 chilometri di catene di montaggio, 223 chilometri di convogliatori aerei, 13 chilometri di gallerie sotterranee. Una rete telefonica pari a quella di una città di 50.000 abitanti, con 10.000 apparecchi e 667 chilometri di cavi; una capacità di autoproduzione elettrica tale da coprire il 50% del fabbisogno energetico, equialente al consumo di una città come Trieste. Una quantità di carburante bruciato annualmente capace di riscaldare 22.000 alloggi. Questa era Torino, la motor town italiana per eccellenza. Ma questa avrebbe potuto essere anche una qualunque delle altre motor town descritte in questo volume: città sottratte a destini diversi, tra ’800 e ’900, che in tempi rapidissimi divennero poli di un’industria davvero globale. Gli otto casi di studio raccolti nella seconda parte del volume – due italiani (Torino e motor-valley emiliano-romagnola), due tedeschi (Wolfsburg e Stoccarda), uno francese (Boulogne-Billancourt), uno britannico (Coventry), uno sve-dese (Göteborg) e, infine, quello eponimo statunitense (Detroit) – testimo-niano di una vicenda storica in fondo piuttosto breve, ma di straordinaria intensità, che ha finito per cambiare non soltanto le topografie e i tessuti sociali delle città interessate, ma anche l’infrastruttura fisica e simbolica, nonché gli immaginari di gran parte dell’Occidente, e non solo.In questi luoghi, per motivi endogeni quanto esogeni, un ciclo è termi-nato e quelle città, così come ancora la letteratura le descrive a fine ’900, sono forse davvero morte per sempre, senza speranza di resurrezione. Potrebbe essere soltanto un problema economico o sociale: a uno sguardo superficiale, in che modo potrebbe apparire una questione architettonica il fatto che l’industria automobilistica si sia trasformata radicalmente, abbia spostato i propri impianti di produzione altrove e/o licenziato i propri ope-rai? Com’è naturale per tutta la storia del patrimonio industriale, architet-tura, città e territorio sono invece parte integrante del problema, anche solo perché questi processi – politici, nel senso etimologico del termine – hanno lasciato tracce al suolo.
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